Anne Gray Harvey (Newton, 9 novembre 1928 – Weston, 4 ottobre 1974) è stata una scrittrice e poetessa statunitense ed è considerata, con Sylvia Plath, la pioniera della poesia confessionale, un genere di poesia sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Oggi la denominazione di questo tipo di poetica è ancora usata negli Stati Uniti, ma in senso generalmente peggiorativo, per indicare poesie che trattano con stile volutamente trasandato di esperienze personali.
I poeti definiti confessionalisti si ispirano al vissuto personale. Esso costituisce il loro principale centro di esplorazione, e spesso i loro traumi sono usati come fonte di intensità per i loro testi.
Quando, il 4 ottobre, 1974, Anne Sexton si spogliò, indossò solo una pelliccia della madre, si versò l’ultimo bicchiere di vodka e poi si suicidò con il monossido di carbonio, non si lasciava dietro nessuna autobiografia. Il suo tormento e i suoi segreti li aveva affidati alle poesie per cui aveva ottenuto nel 1967 il Pulitzer, alle lettere spedite ad alcuni amici, soprattutto al maestro riconosciuto W. D. Snodgrass, alle registrazioni che il suo psicoanalista usava e che, con scelta discutibile, mise poi a disposizione di Diane Middlebrook per la sua biografia della poetessa. Quando si suicidò, come aveva provato già a fare alcune volte e progettato infinite altre, Anne Sexton aveva 46 anni. Si poteva definire bellissima e pazza, era promiscua e disperata, entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche, prendeva pillole di ogni tipo, forse era stata molestata dal padre e la figlia la accusò di aggressione sessuale.
Come l’amica Sylvia Plath, che si era tolta la vita undici anni prima, l’ombra della morte, la tentazione del suicidio e una metodica autodistruzione erano state sue compagne di ogni giorno e tuttavia, a modo suo, Anne Sexton amava la vita. È possibile definirla come una donna che, seppur in frantumi, riusciva a riannodare il filo della sua esistenza spezzata scrivendo. Nelle sue poesie c’era di tutto, anche quello di fronte a cui la poesia dell’epoca inorridiva: le mestruazioni e la ricerca di dio, la masturbazione e l’onnipresenza della morte, il dolore di una figlia maltrattata e quello di una madre incapace di assolvere al proprio ruolo. Non era così che si faceva poesia negli Usa degli anni ’60 ed è per questo che si può dire che Anne siglò una rivoluzione. Fu una delle voci più eminenti e tormentate di quel decennio che capovolgeva il senso comune e le regole come calzini vecchi.
Per Anne Sexton fu importantissima l’amicizia con la scrittrice Sylvia Plath. Si conobbero nel 1959 ad un workshop di scrittura alla Boston University tenuto dal poeta Robert Lowell, considerato uno degli iniziatori della poesia confessionale, stile a cui sono poi state assimilate anche le due autrici. Tramite quel seminario hanno gettato le basi per un rapporto di amicizia in cui condividere molto di sé, persino le parti più oscure. La loro relazione era definibile “ribelle” proprio perché abbracciava lati che a volte sembra sia impossibile far coesistere: Sexton e Plath si confidavano, parlavano dei loro più intimi disagi, ma allo stesso tempo erano due poetesse donne immerse in una società misogina e questo fattore ha impattato molto anche sulla rivalità tra loro, sull’invidia che provavano l’una per l’ambizione dell’altra, per la bravura, per le parole, ma il sentimento che le legava era vero.
La tragica fine della loro vita, insieme alle loro turbolente esperienze di difficoltà a livello psichico, le ha portate a essere ricordate come poetesse “maledette”, sempre allungate verso la morte e con un lato oscuro che ancora non si può completamente comprendere. La critica ha spesso letto le loro opere alla luce di ciò, invece che analizzare e riconoscere la potenza e la presa che hanno avuto e hanno tutt’ora su un grande pubblico. Sebbene si aiutassero molto sfogandosi a vicenda su diverse tematiche e dandosi man forte nello sgomitare in un mondo prettamente dominato da uomini, c’erano anche dei motivi di invidia ricorrenti tra le due, dovuti principalmente alle loro ambizioni immerse nella società patriarcale.
Inoltre, le similitudini che spesso si ritrovano tra le loro biografie personali, il loro stile poetico e i loro malesseri a livello mentale, hanno portato a far diventare le due scrittrici emblemi di femminilità e sofferenza a scapito della loro stratificazione artistica e personale. Infatti, come nel loro rapporto conversavano di morte e di suicidio per dire in realtà molto altro, così con le loro parole apparentemente fitte e oscure comunicano messaggi di straordinaria importanza, sia per la società dell’epoca che per quella attuale.
VOLER MORIRE
Visto che lo chiedi, sappi che di solito non ricordo.
Cammino, vestita, illesa dal viaggio.
Poi il quasi indicibile estro ritorna.
Persino allora non ho niente contro la vita.
Conosco bene i fili d’erba di cui parli,
I mobili che hai esposto al sole.
Ma i suicidi hanno una lingua speciale.
Come falegnami, vogliono sapere gli arnesi.
Non chiedono mai perché costruire.
Due volte mi sono dichiarata, con tale semplicità,
ho posseduto il nemico, ingoiato il nemico,
Gli ho sottratto l’ingegno e la magia.
Così, pesante e pensosa,
più calda dell’olio o dell’acqua,
ho riposato, salivando dalla bocca.
Non pensavo al mio corpo al punto croce.
Persino la cornea e l’urina avanzata, sparite.
I suicidi hanno già tradito il corpo.
Nati morti, non muoiono sempre,
ma ammaliati, non dimenticano una droga così dolce
che farebbe sorridere i bambini.
Ficcare tutta quella vita sotto la lingua! –
Quello è già passione.
La morte è un osso triste, ammaccato, diresti
eppure mi aspetta, anno dopo anno
per annientare dolcemente una vecchia ferita,
Per svuotare il mio fiato dalla sua meschina prigione.
Là, in equilibrio, i suicidi a volte si incontrano,
Accaniti su un frutto, su una luna gonfiata,
abbandonando il pane che scambiarono per un bacio,
Lasciando il libro sbadatamente aperto,
Una frase non detta, il telefono sganciato
e l’amore, qualunque cosa fosse, un’infezione.