EFFETTO DOMINO, Romolo Bugaro
Franco Rampazzo tenta l’affare della sua vita. Costruire un’intera cittadella in zona pedemontana, a Savignano, una gran quantità di metri cubi di abitazioni, negozi, con tutti gli oneri di urbanizzazione, giardini, strade e persino dei laghetti. Il solo plastico costa ben dodicimila euro. Per realizzare questo investimento, Franco Rampazzo si appoggia ad una banca milanese e apre un finanziamento cospicuo, su cui si basa l’intera operazione. Al seguito di Franco Rampazzo, sono coinvolte nel progetto molte vite, tramite una serie di appalti a ditte, fornitori, fornitori dei fornitori, lavoratori e operai. Tutto è avviato, il cantiere aperto. Il giorno in cui la banca, contestando un valore legato alla valutazione del progetto, decide di chiudere il finanziamento, Franco Rampazzo si trova sull’orlo del baratro. Insieme a lui, uno a uno, vengono travolti dall’incubo del fallimento tutti i partners, che come Rampazzo lavorano sul filo del rasoio grazie a crediti bancari o legati a reciproci pagamenti. Romolo Bugaro ci racconta con precisione chirurgica la solitudine dell’imprenditore che fallisce. Improvvisamente, nessuno gli sorride più e le porte restano chiuse davanti a lui. Persino i più stretti collaboratori gli voltano le spalle. La ridente vita agiata di Franco Rampazzo e della moglie Silvana cambia repentinamente. E anche il destino si accanisce con il protagonista, quasi a dirgli che davvero è finita sotto ogni aspetto: Silvana, infatti, si ammala. Intanto, mentre Franco Rampazzo affonda, trascinando con sé molte vite, assistendo perfino al suicidio di uno dei partners, qualcuno molto vicino a lui trama alle spalle per lucrare sullo sfacelo. Effetto domino delinea il preciso quadro di un’economia in crisi e di un’umanità squallida, che può sempre consolarsi con un conto salvagente all’estero. Tuttavia, miracolo del Nordest, fatto di Volvo color castagna e di case a Duna Verde, appare drammaticamente e per sempre svanito.
CARTONGESSO, Francesco Maino
Ambientato nel Venetorientale, a Insaponata di Piave (San Donà di Piave), l’atto d’accusa sotto forma di monologo di Michele Tessari, alter ego dell’autore Francesco Maino, è una colata compatta di parole che non può non travolgere il lettore. Dall’ironica descrizione degli abitanti venetorientali, al racconto tragicomico delle attività lavorative –necroforo prima e avvocato dopo- passando per la denuncia dell’insensatezza edilizia e immobiliare (l’inconsistenza del cartongesso, un emblema), Michele Tessari ci racconta la sua vita. Nel mirino del giovane avvocato sono il mondo degli avvitopi (avvocati rapaci e rampanti) e la mancanza di una cultura, che non sia quella dello spritz, ma anche la religione dell’accumulo. Lui, Michele Tessari, quarantenne, avvocato degli ultimi (quelli che non possono pagare) presso il foro di Venessia, con la sua utilitaria sgangherata, ancora dipendente da mamma e papà, sofferente quanto basta, emette questo urlo lungo duecentotrentanove pagine, prive di suddivisioni in capitoli, paragrafi o “a capo”. Si libera –forse- dalla rabbia cancara che ha in corpo, ma rimane vittima dello stesso mondo contro cui si scaglia, senza protestare o tentare di cambiare le cose. Alla fine, una nota dell’autore ci chiede di avere “spirito caritatevole e accogliere l’urlo accanito”, tenendo presente che l’unico destino per uno come Michele Tessari è la pazzia. Non c’è salvezza, nemmeno l’ombra di un happy end, nel romanzo di Francesco Maino, che lascia il lettore baùco (instupidito). Notevole il lavoro linguistico, l’impasto di italiano e dialetto, un uso non esteriore, ma sostanziale della lingua venetorientale e spassosa la costruzione dei nomi “parlanti” come Loris Artiglio o Venerino Bigotti, che rendono divertente un testo assai amaro.
Il romanzo ha vinto il Premio Calvino.