Siamo alla fine degli anni ‘50. Su una piccola isola nel canale di Sicilia approda un barchino con sopra un uomo e un cadavere di donna. Tra la curiosità e lo smarrimento degli abitanti, l’uomo dichiara di chiamarsi Bruno Surico e di portare con sé il cadavere della moglie. L’uomo si dice superstite di un incendio avvenuto sulla sua imbarcazione, dove sarebbero morti tutti i componenti della famiglia Domoculta che lui trasportava. Padre, madre e tre bambini. Lo scienziato Dalmasso, sull’isola per studiare flora e fauna, si accorge da alcuni dettagli tecnici che la versione di Surico non è del tutto lineare. Parimenti, il suo inseparabile aiutante Nonò, un ragazzino curioso e intelligente, accoglie i sospetti di Dalmasso riguardo a come siano veramente andate le cose in mezzo al mare. Questo l’antefatto. Gli anni passano, Nonò è cresciuto si è fatto uomo ed è diventato Nofriu. Quello che non è mai passato, però, è il suo desiderio di conoscere la verità, di trovare le prove, di cercare il punto esatto dove sono morti i Domoculta, in mezzo al mare. Diventa per lui un’ossessione che orienta tutta la sua vita e che lo spinge a raccontare di continuo quella vecchia storia, ai monelli, ai passanti, ai turisti che sbarcano su un’isola ormai cambiata, evoluta, divenuta meta di vacanza.
“Un giallo letterario fuori da ogni canone e con una triplice forza: una struttura insolita, un ritmo serrato e una penna rara. La chiave del mistero è nell'animo di chi racconta.” (Einaudi)
“Romanzo di scrittura e d’avventura, solitudine e ingiustizie, ossessione e parola, L’isola e il tempo, Einaudi, è il sorprendente debutto di Claudia Lanteri.” (La Repubblica)
“Il romanzo della scrittrice siciliana, de facto un esordio, ci pone, in realtà, davanti agli occhi un’opera di una maturità – stilistica, compositiva, linguistica e di immaginario- notevole.” (La Lettura – Corriere della Sera)
Claudia Lanteri vive a Palermo, dove fa la libraia. Ha pubblicato racconti su varie riviste («Snaporaz», «Malgrado le Mosche», «Micorrize »). L'isola e il tempo (Einaudi 2024) è il suo primo romanzo.
Come nasce nella sua immaginazione la storia raccontata in questo romanzo d’esordio, L’isola e il tempo?
L’isola e il tempo è un romanzo in cui l’avvio di un’indagine diventa l’occasione di affrontare il tema della memoria, del trauma e delle sue conseguenze. Inizialmente, a colpire la mia curiosità è stata una notizia letta per caso – il ritrovamento di un sopravvissuto che fa crollare la veridicità del racconto di un uomo, finendo per dimostrarne la colpevolezza – che ha cominciato a crescere e ad arricchirsi di dettagli, ipotesi e collegamenti. Come spesso accade, la storia si è definita solo quando mi è stato chiaro il teatro della sua ambientazione, un luogo a me molto caro: l’isola riconoscibile per il contrasto con i luoghi che ha vicino (lo scoglio di Lampione, l’isola grande ‘Mpidusa, il Canale di Sicilia), mai nominata. L’assenza del nome richiama alla difficoltà del personaggio principale – Nofriu Càrcano, conosciuto in paese come Nonò fin da quand’era ragazzino – di attribuire alle cose che ha intorno un confine definito. Il nome è portatore di identità, consapevolezza di sé e degli altri, progettualità futura: tutte cose impossibili per il protagonista, che nella piccola comunità di contadini e pescatori abitanti dell’isola vive in uno stato di isolamento, per quanto ben voluto, come congelato in un eterno presente.
La storia ha avvio nel 1958, quando la pace di questo piccolo luogo è spezzata dall’arrivo di un barchino su cui viaggiano uno skipper, Bruno Surico, e il cadavere di sua moglie Daisy, cambusiera (e scrittrice). L’irrompere in scena di questo elemento di violenza, i fatti che ne conseguono, diventano una vera ossessione per il protagonista, il ragazzino fattosi adulto e ritratto in varie fasi della sua vita. In trent’anni ha ripetuto il resoconto di quelle poche settimane di luglio, ancora e ancora, a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Il pretesto investigativo cede così il passo al vero fuoco della storia: il potere della narrazione, l’aspettativa riposta nella sua forza persuasiva, che cambia il corso degli eventi, che ripara a una perdita, una memoria danneggiata che continua a riscrivere sé stessa nell’illusione che il passato ritorni, e che le contraddizioni tradiscono quando si fanno più dense, palesi. Questi sono i passaggi in cui il passato e il presente coesistono nel rimpianto e nel dolore: cercavo una temporalità circolare, ma volevo anche che fossero i luoghi, i personaggi, i piccoli dettagli a farla vivere.
Leggere questo romanzo è come entrare in uno stato di ipnosi, dove l’incantamento è prodotto dalla lingua, dalle parole.
Come ha costruito la lingua di questa narrazione, a quali autori si è ispirata? E perché, secondo lei, il testo porta con sé questo effetto ipnotico?
Credo che lo stile del racconto influenzi i fatti di trama in modo strettissimo: la voce di Nofriu aveva esigenze specifiche, dovendo sottolineare, col suo mutare di tono, lo scorrere degli anni. In un presente che in apparenza tutto livella, si aprono qualche volta degli squarci di consapevolezza che il tempo è passato, con frasi all’imperfetto, al trapassato prossimo. Anche la lingua che ho cercato di costruire nel romanzo è mobile, prova a mescolare continuamente alto e basso. Guarda alla tradizione letteraria che più ho fatto mia: tra i conterranei, Consolo, Sciascia, Bufalino; tra i singoli testi, L’isola di Arturo, di Morante l’Horcynus Orca di D’Arrigo, Conversazione in Sicilia di Vittorini; ho cercato di ricordare l’opera di grandi autrici mai abbastanza lette Ortese, Deledda, Loy, Ramondino, tra le altre. Io leggo più volentieri le opere in lingua italiana, anche quelle dei contemporanei: mi danno l’illusione di afferrare i ragionamenti dietro alle scelte lessicali, le sfumature semantiche.
La vicenda è ambientata in un contesto molto umile, così frequenti sono i calchi o i prestiti dal dialetto, le varietà regionali, i toni da teatro popolare: le fonti qui sono state un dizionario siciliano, il Piccitto – Tropea – Trovato, che ho consultato almeno una volta al giorno per tutti i tre anni di lavoro che il libro ha preteso, i racconti registrati dalla viva voce degli isolani, la saggezza di proverbi, preghiere, scongiuri, i miei stessi ricordi d’infanzia. I miei genitori erano attori per passione, vederli muovere sul palco fin da piccolissima è stato il mio addestramento nella gestione dei dialoghi: senza barriere di genere, anche lì, da Scarpetta a Verga. Il dialetto è una forma espressiva che concede molte libertà: affettive, sociali, etnologiche, ritmiche e musicali. Credo che dipenda da questo l’effetto mesmerico della lettura: il racconto di Nofriu è fatto di descrizioni immaginifiche, in equilibrio tra vividezza e ricordo, ma che ho sempre costruito affidandomi al senso del ritmo, attorno a nuclei sillabici, con un orecchio teso alla parola poetica. Quando scrivo sono immersa in questa ricerca di suono, mi isolo dalla realtà che ho intorno. Conta solo il ritmo da scegliere, la musicalità delle parole, e tutto il resto è distante, come fossi sott’acqua.
«Il buio cala veloce; appena le mie braccia toccano l’acqua, questa si infrange in milioni di rombi scintillanti e il mare dal fondo s’illumina: oggi è sera di mare in amore, che è quando le alghe e i pesci neonati, e i nudibranchi, e i ámmari furiani, tutte le creature senza scheletro s’illuminano come dall’interno, facendo l’acqua viva».
Questo è solo uno degli splendidi passaggi in cui si parla dell’acqua, del mare. Che ruolo ha il mare in questa storia?
Nel romanzo il mare è una potenza ambivalente, spesso descritta come una superficie che separa due realtà: quella visibile, manifesta, calma e quella sommersa, occultata alla coscienza e piena di pericoli e segreti. Anche le cose più candide, come le nuvole, nel momento in cui si specchiano nel mare si deformano e diventano spaventose: «come se la linea dell’orizzonte segnasse un mondo di sotto diverso e più orribile di quello di sopra, racconta Nonò, per il quale il mare è comunque il luogo della scoperta e dell’avventura. E se per il giovane uomo nel tempo diventa anche un mezzo di sussistenza, e per l’adulto, quasi vecchio Nofriu il mare è il luogo di un interdetto. Ritrovare il “punto esatto” in cui potrebbe trovarsi un relitto, nuove prove, la speranza di riaprire un’indagine significa infatti processare un trauma indicibile, e per ciò stesso continuamente differito.
Anche oggi il mare, e specialmente il mar Mediterraneo, conserva per me questa ambivalenza di cosa che si guarda con sospetto, come fonte di pane ma anche di pericoli. Oggi lo stesso mare che attrae turisti è interdetto ai residenti, con la progressiva privatizzazione dei litorali, o è una tomba per più di cinque migranti al giorno, che oltre al danno di rischiare la vita subiscono la beffa di sentirsi domandare chi glielo ha fatto fare di lasciare le proprie case. Come se la povertà e la disperazione non ci riguardassero più.
La storia è narrata, senza margini di dubbio, in prima persona da Nofriu. Un uomo adulto se non già di mezza età. Eppure, si nota che in molte recensioni questo racconto viene attribuito a Nonò, il protagonista da ragazzino. Forse Nofriu porta con sé il bambino che è stato nel momento dell’impatto con la “morte calamitusa”, o forse la potenza del Nonò ragazzino nelle prime pagine è tale da imprimersi forte nella mente del lettore e fissarsi. Come se la spiega, da autrice, questa percezione “spostata” riguardo alla voce narrante?
Ci ho riflettuto spesso da quando è uscito il libro. Credo che siano vere entrambe le cose, da una parte i capitoli iniziali creano una forte adesione col punto di vista, curiosissimo e avventuroso, del ragazzino che si intrufola dappertutto, origlia discorsi, assorbe ogni dettaglio – quasi a farsi strumento di un’onniscienza individuale, se non fosse un paradosso; dall’altra, Nofriu conserva nel suo modo di esprimersi e di descrivere la realtà che ha intorno qualcosa di candido, perfino ingenuo: un tono che ho cercato di costruire come correlativo di una mente scossa, di un’interiorità bloccata.
Eppure ci sono degli indizi per me inequivocabili del tempo che è trascorso, come quando il “nuovo” maresciallo spiega a Nofriu che suo padre, ammesso che fosse davvero in combutta con lo skipper Surico, non può essere accusato di nulla, perché «per la legge la condizione di defunto è incompatibile con quella d’imputato», o quando, in un rovesciamento del rapporto tra chi accudisce e chi è accudito che ci si aspetterebbe, è il figlio che imbocca la madre Angelina di zuppa di fave, perdendo la pazienza e sgridandola.
Volevo che fosse il lettore a intuire lo scorrere degli anni, senza mai dichiaralo esplicitamente, come se anche il tempo fosse un piccolo enigma da risolvere. La pergola di Tina, il cimitero, le calette progressivamente più affollate di turisti, sono tutti luoghi che si trasformano nel corso del romanzo. Anche questo contrasto è voluto: l’isola è un crocevia di persone che vanno e vengono, mentre Nofriu rimane come imprigionato.
Visto che oltre a essere una scrittrice lei è anche una libraia, le chiediamo qualche suggerimento di lettura per i nostri utenti delle Biblioteche Civiche di Padova. Magari un classico e un contemporaneo, ma anche più di uno, a sua scelta.
Sto cominciando a raccogliere suggestioni in vista di un progetto a cui vorrei presto dedicarmi, per cui le mie letture già un po’ risentono di questa ricerca di consonanza: in questi giorni tengo a portata di mano Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni, edito da Sellerio, perché mi interessa continuare a ragionare sul tema dell’insularità e della riflessione sulle proprie origini. Collegato a questo concetto, un libro che mi ha consigliato (e regalato) Aurora Tamigio [autrice de Il cognome delle donne, Feltrinelli, n.d.r.]: Dolce Nero, di Charmaine Wilkerson, in cui due figli si trovano a fare i conti con il passato insospettabile della madre, scomparsa da poco, attraverso la lunga confessione registrata che la donna ha lasciato loro. Lo pubblica Frassinelli.
Un classico che rileggo sempre volentieri è Lolita, di Nabokov. Consiglio di affiancarlo alla lettura di Triste Tigre, sconvolgente memoir autobiografico che ha giustamente fatto incetta di premi, in Francia e qui da noi, di Neige Sinno, edito da Neri Pozza.