L’emarginazione, la malattia mentale, l’alcolismo, l’esistenza reclusa o randagia di personaggi ai confini della società e della vita stessa. Pino Roveredo, scrittore triestino morto il 21 gennaio, ha raccontato, con l’autenticità data dall’esperienza vissuta, i territori di chi, «cullandosi sopra l’altalena del tempo, fatica il giorno per guadagnarsi la notte». Nato da genitori sordomuti e poverissimi nella Trieste del secondo dopoguerra, 1954, Roveredo aveva passato gli anni dell’infanzia in collegio, in un regime di soprusi e maltrattamenti, a cui, dopo la fuga, erano seguiti l’alcolismo, la prigione e poi il manicomio. In quell’esperienza aveva messo radici il primo doloroso romanzo uscito nel 1996 da Lindt poi pubblicato dalla Bompiani di Elisabetta Sgarbi, Capriole in salita, che gli diede una certa notorietà e la possibilità di una seconda stagione di vita, dominata dalla scrittura.
A quell’esordio erano seguiti Ballando con Cecilia, un viaggio nell’ombra di una novantenne che ha trascorso 60 anni in un ospedale psichiatrico dove è rimasta anche quando, con la riforma Basaglia, quel suo universo chiuso si è aperto, e Mandami a dire con cui, nel 2005, vincerà, a pari merito con Antonio Scurati, su un podio tutto Bompiani, il Premio Campiello (vai alla nostra pagina) che lo menziona oltre che «per la sua penna ispirata, per la caratura morale».
Era lo stesso Roveredo a spiegare il senso di un percorso scandito da un diverso rapporto con il dolore: prima la sofferenza come ragione per continuare sulla strada dell’autodistruzione, poi ragione di vita. Dopo Mandami a dire che raccoglie quattordici storie, alcune fulminee, di sofferenza e speranza, in cui l’equilibrio dello stile evita ogni eccesso patetico, Roveredo ha scritto molto — racconti, romanzi e testi teatrali — non sempre con la stessa asciutta ispirazione degli esordi, ma creandosi un suo spazio nel mondo letterario, facendo sentire, e ascoltare, la sua voce anche nelle dinamiche della società e della politica.
Nei libri seguiti a Mandami a dire, tutti pubblicati da Bompiani, Roveredo ha continuato a frequentare, con registri diversi, i territori dell’autobiografia, i temi dell’emarginazione e del male di vivere. Come in Caracreatura, dove una madre che si è lasciata alle spalle un passato difficile, si trova di fronte alla tossicodipendenza del figlio, o come in Mio padre votava Berlinguer, una sorta di lettera al genitore operaio-calzolaio, scomparso nel 1981, compreso, anche nelle sue debolezze, dopo la morte. O ancora come nei racconti di Mastica e sputa, titolo preso a prestito da una canzone di un’altra grande voce degli esclusi, Fabrizio De Andrè.
L’ultimo romanzo, I ragazzi della via Pascoli, è dedicato ai lettori più giovani e reinventa la storia di Pino, pescato in un sacco dal padrone dell’Universo e spedito con il gemello Rino a Trieste, nella «galleria del silenzio», in una casa umile dove ci si arrangia con pane, patate e fantasia, e dove, insieme all’affetto, regna il linguaggio dei segni, mentre fuori imperversa il rumore.
Tutti i suoi romanzi e racconti
Un approfondimento sul suo impegno nel carcere di Padova (sito socialnews)